Le Esposizioni del 1911. Roma, Torino, Firenze (Treves)

• • LE ESPOSIZIONI DEL 1911 CONCLUDENDO: 1898-1911-19 .... Per i torinesi 1898 e IQII non sono due date discordanti, due momenti antitetici della vita nazionale. Per i milanesi sì; per i milanesi il periodo di sentimenti e di affetti nel qu~le ora viviamo è cominciato col 1909 soltanto. E leale riconoscere que_ste discrepanze regionali di cronologia civile. E leale l'ammettere che forse anche Milano è di un decennio in ritardo di fronte a · Torino nel caldo ed operoso riflusso di entusiasmi patriottici. Certo è che le memorie, fauste memorie, dell'Esposizione del 1898 ricorrenti per ogni dove nelle pagine illustrative dell'odierna mostra di Torino, provocano, nello spirito di chi abbia intensamente vissuto quell'ora politica, un arruffio di immagini bigie od acri. E quando, messo piede per la prima volta nel territorio dell'Esposizione mi vidi consegnare un manifestino delle "incubatrici,,, poste tra il giornale e la galleria del lavoro, per il limpido ricordo d'aver visto quel novo sistema di correggere gli effetti delle nascite intempestive nello stesso posto, tredici anni or sono, mi sentii occupare da una fastidiosa ed aggressiva malinconia. 1898 ! Allora, abbandonando Milano per l'Esposizione di Torino mi era parso un po' di disertare dal campo della lotta combattuta per una parentesi d'oblio negli ozii capuani. A Milano cominciavano coll'autunno le prime audacie della propaganda pro-amnistia e tutto il pubblico dibattito s'imperniava, come poi si imperniò per un lungo quinquennio, nel diverso giudizio dei moti e delle repressioni della primavera precedente. A queste drammatiche, talvolta sanguinose, impressioni che noi recavamo dalla metropoli lombarda, Torino prestava un'attenzione un po' stupita, un po' incredula, un po' corrucciata; il flagello divideva, non era di quelli moralmente benefici che son capaci di affratellare. Così, aggirandoci per i viali nel!' autunno suggestivo del Valentino •ci si chiedeva pensosi e preoccupati se ci stesse davanti la prova del progresso italiano al di sotto ed in mezzo ai rovesci ed ai disordini della vita ufficiale, o se l'oggetto della nostra ammirazione non fosse piuttosto un'oasi illusoria ed effimera di lavoro fortunato e rimuneratore fra le diffuse minaccie della lotta civile. È Torino, ci si domandava, o è l'Italia? È Torino che si apparta dalle sciagure della nazione o è la nazione che ripara qui, colle mille testimonianze della sua vita industre e profonda, superstite e vittoriosa delle crisi pubbliche che la travagliano a due anni da Adua, negli echi lugubri dei tribunali di guerra? È Torino, insomma - ecco il dilemma formulato con qualche bruta energia, non rara allora - l'ultima città dinastica o è . Torino la prima città nazionale fedele alle idealità dello Stato nel prorompere dei rancori di classe? Visitando l'esposizione d'oggi questi quesiti lontani ritornano a mente: li si rivolgono tuttavia nel pensiero e si cerca di dar loro una risposta. 1898-1911 ! Il lasso di tempo è breve: pare insufficiente per un'evoluzione degli animi. Guardiamoci attorno . Fra le due esposizioni vi ha una differenza grandissima. Le statistiche diffuse l'hanno misurata dai metri quadrati coperti dagli edifici; le carte topografiche la sottolineano agli occhi mostrandovi · nelle rive del Po e nelle fontane luminose di Ponte Isabella le colonne d'Ercole del 1898, superate dall'audacia del 19rr; l'ignaro ne fa egli pure testimonianza colla propria meraviglia quando, sbarcato al Pilonetto, si trova innanzi una esposizione suppletoria, una gigantesca, quasi mostruosa appendice d'esposizione, un soprappiù impensato e colossale di spettacolo meraviglioso. Ma le differenze non sono queste sole che possono constatare gli agrimensori. Il passato non si sommerge soltanto per le sue scarse vestigia, ristretto al castello medioevo, alle fontane, o al chiosco - nominiamolo di nuovo anch'esso - delle incubatrici. Dov'è il regionalismo? Se un sospetto potevate avere nel 1898, come albergarlo oggi quando Roma e Torino si associano in un' istessa iniziativa, quando l'esposizione di Torino è monca di tutta la parte artistica albergata dall'ospitalità incomparabile della città eterna? Pare che dal 1898 al 19rr il paese abbia ripetuto l'avventuroso trapasso ideale superato mezzo secolo innanzi dal 1848 al 1861, dallo Statuto che poteva riguardare una regione, al voto · solenne che certamente investiva della solennità · fatale delle proprie promesse tutta quanta la penisola. Vi sémbra che Torino, rimanendo fedele nel 1898 alle ricorrenze festose nel disordine delle contrade vicine, abbia un po' compiuto il prodigio istesso del '48 quando festeggiava sola un sincero patto fra principe e popolo. E di nuovo, dal '98 al '9rr, come dal 1848 al 1861, in uno spazio trilustre, il fremito patriottico si è esteso dall'Alpi al centro delle nostre memorie, ha risvegliato del proprio magico contatto la grandezza di Roma. Forse, questa sorta di legame invisibile che riunisce Roma e Torino, nella esultanza di que· ste mostre cinquantenarie, percuote troppo e sommuove l'animo alla lirica. Ma c'è un'altra mostra che si tentò per la prima volta in Milano nel 1906, e che qui si ripete: quella degli italiani all'estero. Restringendoci - perché del suo significato generale fu già discorso in queste colonne - a considerarla soltanto nel riflesso del 1898, una circostanza, un suo aspetto fisionomico si impongono perspicui ed eloquenti. Questa è, lo si voglia o no, una mostra coloniale. Per quanto alcuni grafici - dei quali non si vuol affatto negare l'interesse e l'utilità - colle cifre progressive dei milioni inviati in Italia dagli emigrati possano essere interpretati da certuni come un insegnamento sui vantaggi che l'Italia trae dall'emigrazione e sul!' opportunità di lasciarla continuare, pure la maggiore attenzione del pubblico si raccoglie su ciò che meglio e più direttamente ci riguarda. Ci sono i prodotti della Cirenaica ferace, vi hanno le nuove industrie di Tripoli, della nostra terra promessa, come ha detto nel bel titolo d'un suo recentissimo volume uno dei più giovani ed intelligenti giornalisti, Giuseppe Piazza; ci sono, e accanto a loro tutti gli affettuosi gridi che i nostri connazionali ci mandano dalle altre parti del mopdo par che vengano dalle " terre perdute ,,. E anche questa una felice parola del Piazza, il Barzini della Tri'buna. Ci sono le due terre acquistate. In tredici anni è forse questa la prima confessione esplicita, tangibile, visibile, odorabile che l'Italia ha due colonie; per molto tempo la secondogenita era stata occultata come i figlioli poco desiderati nelle famiglie aride. Qui, a Torino, _il Benadir viene anch'esso alla luce del sole. E poco, di fronte alle altre nazioni. Ma è un bel segno che le timidità ufficiali davanti agli antiafricanismi accennano almeno a diminuire. E per la prima volta un po' ad alta voce, sulla riva destra del Po, si dice quel che per ora sussurravano soltanto le tariffe postali e le carte geografiche: accanto ali' Eritrea ci è nata la Somalia. Ho detto " un po' ad alta voce ,, : perché c' è infatti qualche occultazione nelle guide ufficiali. Ho sotto gli occhi due planimetrie generali dell'Esposizione, ed in entrambe, nella grande e nella piccola, il villaggio somalo ed il villaggio eritreo non sono registrati. C' è solo l'indicazione vaga di un " parco dei divertimenti ,,. Eppure, malgrado sieno cosi clandestini, malgrado sieno avulsi da quello che, esigenze tecniche a parte, avrebbe dovuto essere il loro posto naturale, voglio dire dagli " Italiani all'estero,,, malgrado la contiguità equivoca coll'Oriente di cartone e col parco dei divertimenti dove figurano altri neri, malgrado tutto ciò, non è audace affermare che quel pugno di sudditi italiani natici nel!' Africa litoranea ed orientale esercita una particolare suggestione sui visitatori. Sono due poveri ammassi di capanne: sono due punti di vita selvaggia: ma chi li osserva, chi, ricordando, li confronta con quei villaggi importati dagli speculatori ed esibiti alla curiosità europea con una commerciale e raffi. nata esasperazione di costumi barbari, sente, negli umili recinti, che fra le debolezze, le esitanze, le taccagnerie che le tormentano, anche l'Italia è pur capace alla fine di far opere di civiltà, di estendersi nelle terre nuove. Fra quelle miserabili còstruzioni di legno e di paglia si aggirano, unico segno della nostra dominazione, alcuni gendarmi indigeni, ripuliti al!' europea, raffazzonati nell'abito militare e sopratutto mutati da un inafferrabile ma generale dirozzamento delle maniere, come ormai assorbiti in una vita superiore e più degna. Sono l'unica cosa viva del!' Africa italiana, dell'Africa che diventa italiana. Eppure in tutti questi mesi essi sono stati circondati dalla curiosità ingenua e simpatica della cittadinanza torinese. Fermandoli nei viali dell'Esposizione, arrestandoli anche nelle strade, il pacifico Gi'anduja prova una compiacenza viva e bonaria nel farli discorrere, nell'ammirarne la correttezza e la sicurezza, nel poter conchiudere che sembrano davvero italiani. Ed in questo spontaneo e giocondo interesse popolare - che sarebbe stata facile arte di governo il provocare assai prima - c' è un principio di soddisfazione nazionale, c'è, in germe, il consenso al proposi to d'espansione, c'è l'intuito che di quest i orfani morali, perché figli di civiltà impari al contatto coll'Europa, di questi orfani disputati da tutte le grandi nazioni moderne, alcuni, con un po' di buon volere, potremmo adottarne ed educarne decentemente anche noi. Il sintomo modesto, e che pure non si può trascurare, trae valore dai raffronti col 1898. Chi, nel 1898, avrebbe osato, sia pure in queste esigue proporzioni, ricordare l'Eritrea? Ed allora sorgeva, accanto alla· profana, la mostra d'arte sacra essa pure raccogliendo dai continenti lontani molti piccoli catecumeni, osservati con tanto d'occhi, interrogati ed anche vezzeggiati dai coetanei torinesi. Oggi, le distinzioni confessionali sono state riassorbite nell'orbita e sotto il prestigio dello Stato, sicché quando l'opera dei missionari italiani volèsse ritentare ciò che essa ha fatto nel 1898, potremmo .per il suo concorso avere, anzichè una collezione di scuole come allora o un accampamento nudo, scheletrico come adesso, un più popoloso, più compiuto villaggio coloniale. La Francia ha già riunita, or è qualche tempo, in Marsiglia la propria esposizione coloniale. Perché non ardirebbe una simile rassegna l'Italia in una città del Mediterraneo? Certo ormai non la può trattenere una svogliatezza dispettosa per tutto ciò che riguardi l'esercito. Le due mostre della difesa del paese e della mari'na non hanno qui, mentre l'avevano nell'Esposizione milanese del 1906, alcun antidoto pacifista, alcun controaltare, alcun correttivo rivolto a stabilire che noi siamo, di tutti, il popolo più timoroso della guerra: ed è lecito dire che le due mostre militari sono le preferite dal pubblico il quale può coglierne facilmente l'essenza drammatica, può compierle ed avvivarle della propria fantasia. L'esposizione, insomma non parla parole di rassegnazione e di pavidità: e se, nel Palazzo del Giornale, vi fermate a leggere il Corriere della Sera, un Corrz'ere della Sera del 3 agosto 1866 esposto per giuoco d'omonimia col suo potente successore, eccovi un articolo intiero di Giuseppe Rovelli "sulle paci mille volte più disastrose delle guerre,,. Ufficiali, poi, dovunque. Anche nel Palazzo della Moda. Quelle scene di vita elegante paiono trasportarvi nel mondo delle commedie di Paolo Ferrari; come in Cause ed effetti·, come nelle Due Dame, l' esercito di terra e di mare vi è sempre rappresentato. E l'italianità non è superficiale; non si restringe alle ' uniformi: è italianità di divertimenti invernali ed estivi, italianità di stile, di ispirazione, di artisti e di industria: è anche italianità di° dizionario. Salvo per la "nursery ,,. Perché si è battezzata col nome ingles e questa stanza educatrice, in un appartamento signorile tutto denominato all'italiana nelle altre sue suddivisioni? Davanti a quel " nursery ,,, confesso, sono rimasto un po' male, e mi sono, tacitamente e sentimentalmente vendicato osservando che in quella stanza di bambini dall'esplicita anglomania, c'era davvero, per fortuna, qualcosa di poco itaìiano: l'assenza della mamma. Ma, tralasciando queste punzecchiature, l'impressione complessiva è che il Palazzo della moda sia, senza recarne il titolo pugnace, un palazzo della moda italiana. E perchè non ne confesserebbe un'altra volta più manifesto il proposito? Un'altra volta! Queste parole ritornano frequenti sulle labbra. L'occhio spia di fra gli assiti dell'esposizione presente, sperando di cogliere i lineamenti dell'esposizione futura. Per quanto essa sia ricca, suntuosa, imponente, un' esposizione industriale non schiaccia mai, non rende mai prigioniera la fantasia. L'opera d'arte esercita sola ques ta tirannide sugli spiriti. " Le esposizioni artistiche - leggo in un fascicoletto uf50 années triomphal succés: contre les TOUX usez des Pastilles Marchesini

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